Né giusto né sbagliato

Né giusto né sbagliato

Avventure nell’autismo

Il piccolo Morgan Collins ha tre anni. Legge tutto quello che gli capita a tiro, dalle annate di vecchi giornali ai manuali di medicina. Ma se qualcuno gli chiede come si chiama non risponde, e le frasi più ovvie sono per lui un rompicapo insolubile. Per descrivere questo comportamento i medici sono soliti usare una parola semplice e definitiva: autismo. In realtà, come dimostra Paul Collins in questo affettuoso, disarmato e toccante ritratto dal vero di suo figlio, quella parola, prima che una diagnosi, è la soglia d’accesso a un continente misterioso e affascinante, con i suoi primi abitanti (il Ragazzo Selvaggio che sconcertò l’Europa del Settecento), i suoi cartografi (da Freud ad alcuni coraggiosi ricercatori di oggi, spesso non meno eccentrici dei loro pazienti), le sue imprevedibili propaggini (ad esempio i programmatori della Microsoft, che invece di guardarti in faccia seguono quello che dici sullo schermo del loro computer). Una volta chiuso a malincuore questo libro necessario e incantevole, intessuto di storie lontanissime fra loro, i lettori non sapranno probabilmente dire che cosa abbiano letto. E avranno una ragione di più per amare Collins quando afferma: «E comunque non è come pensano loro: non è una tragedia, non è una triste storia, e neppure il film della settimana. È la mia famiglia».

di Paul Collins (Adelphi Edizioni, Milano, 2005)

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Reviews:Emanuele Trevi ha scritto:

«Ruba frammenti incoerenti di linguaggio come una gazza, raccoglie brandelli di conversazione e li usa per costruire un nido: confortevole per lui, innaturale per chiunque altro»: in un libro di grande energia poetica e forza rappresentativa, scaturito dalla convivenza con la malattia del figlio, Collins ci coinvolge nella sua dolce, disperata ricerca di un filo d'Arianna
Avventure nell'autismo è il sottotitolo del bellissimo libro di Paul Collins Not Even Wrong, uscito in America l'anno scorso e tempestivamente arrivato in Italia con il titolo, abbastanza equivalente, Né giusto né sbagliato (Adelphi «Fabula, traduzione di Carlo Borriello, pp. 268, ÷ 18,00).
Sono avventure che si svolgono nel presente, a partire dalla diagnosi di autismo che si abbatte come un fulmine del tutto imprevisto su Morgan, un delizioso bambino di tre anni, e ovviamente sul padre, Paul Collins, e su sua moglie Jennifer. Ma Collins, che di mestiere fa lo storico, un anno prima di conoscere la verità su suo figlio si era imbattuto in un caso di autismo, ovviamente non diagnosticato in quanto tale, risalente al Settecento: il celebre Peter il Selvaggio, trovato a dodici anni in un bosco nei dintorni di
Hannover e oggetto delle meditazioni degli spiriti più profondi del suo tempo, tra i quali Defoe e Swift.
La coincidenza è perlomeno singolare, e Collins non si affanna certo a razionalizzarla. Semmai, da vero scrittore, ne ascolta il fascino narrativo, e lascia che il racconto prenda le mosse da questa sorprendente sovrapposizione di profili, quello del ragazzo selvaggio dell'età di Rousseau e quella del bambino tanto amato, rinchiuso nel suo bozzolo di solitudine eppure lì, in carne e ossa nelle braccia dello scrittore e di sua moglie, bisognoso di protezione, piombato in un mondo che, se non è fatto per nessuno in
particolare, ancora di più non è fatto per lui.
Per amore e per sete di conoscenza, Collins si trova nella posizione paradossale di chi cerca un filo di Arianna per orientarsi in un labirinto dove mai e poi mai potrà entrare effettivamente. La «prospettiva radicalmente alterata» dell'autismo potrà anche essere imitata, forzando all'estremo le capacità di empatia, per fini artistici: come fa Dustin Hoffmann nell'indimenticabile interpretazione di Rain Man, per esempio, oppure Mark Strand nello Strano caso del cane ucciso a mezzanotte, una fiaba così potente e
insieme leggera da far pensare a un Piccolo principe affetto dal morbo di Asperger. Ma Paul Collins, che non a caso cita spesso e con ammirazione Oliver Sacks, riesce a ricavare grande energia poetica e forza rappresentativa dalla prospettiva più realistica, che è quella di chi, forzatamente, sta all'esterno, e osserva. I figli si abbracciano, si coccolano; i documenti storici si interrogano con attenzione e pazienza.
Ma in entrambe le situazioni, l'esperienza ruota intorno a qualcosa di inviolabile. La cosa più sensata che si possa dire di un soggetto autistico di qualunque età, in fondo, è anche la più comune e meno «scientifica»: si tratta di qualcuno che vive in un mondo tutto suo.
Le conoscenze scientifiche più avanzate spiegano questa singolarità collegandola a una mancanza, nell'autismo, di una teoria della mente. In parole povere, un bambino come Morgan non concepisce che qualcuno possa pensare le cose in maniera diversa da lui, possedere altre conoscenze, nutrire altre aspettative e altri timori nei confronti del mondo circostante. Se noi non concepiamo con precisione e continuità questa specie di salto ontologico - la nostra mente da una parte e quella degli altri dall'altra - miniamo alla base il presupposto di ogni comunicazione, di ogni linguaggio comunemente inteso.
Non che il linguaggio non esista e non svolga un ruolo importantissimo nella mente autistica: tutt'altro. È la sua essenza di veicolo, di segno che passa totalmente in subordine, mentre i suoi elementi (la frase di una canzone, il testo di un cartello stradale, le pagine di un libro, le singole lettere dell'alfabeto) vengono scomposti e riutilizzati nell'edificazione di ingranaggi di senso del tutto imprevedibili e singolari, pensati per tutto tranne che per il fatto di essere condivisi.
«Tutto quello che dice - scrive Collins su suo figlio - è un'eco di qualcosa: la televisione, i giochi elettronici, i libri, le canzoni. Ruba frammenti incoerenti di linguaggio come una gazza, raccoglie brandelli di conversazione e li usa per costruire un nido: confortevole per lui, innaturale per chiunque altro». Forse
non è troppo azzardato il confronto tra questa pratica fondata sulla ripetizione e la manipolazione e un concetto fondamentale del pensiero magico: l'equivalenza assoluta, fonte di potere e all'occorrenza strumento di difesa, tra la parola e la cosa.
E tra le pagine più avvincenti del libro di Collins vanno ricordate quelle dedicate alle tecniche, pazienti e sottilissime, che gli educatori impiegano per abituare i bambini come Morgan ad avvalersi, almeno in certe occasioni, della natura simbolica dei segni e delle parole. Sempre partendo dall'aspetto materiale di queste ultime, trascritte su schedine («mamma, «papà», «pop corn», «giardino» e così via) che piano piano possono diventare inutili, via via che scoccano, e vengono opportunamente incoraggiate e custodite, le prime scintille di consapevolezza della natura strumentale del linguaggio... È una guerra di trincea che si combatte metro per metro, questa. E il bello è che si combatte duramente, ma senza dimenticare che il «nemico», tutto sommato, non è una «malattia vera e propria, perché il tipo di diversità che si manifesta nell'autismo potrà comportare conseguenze e fastidi e pericoli d'ordine pratico infiniti, ma non si potrà mai ridurre a questi.
Collins concede poco o nulla al solito argomento dei geni autistici del passato e del presente. Semmai, è attratto dal potere di concentrazione e dalle capacità di memoria tipiche di moltissimi autistici, e che si possono applicare del tutto indifferentemente alla gravitazione universale e ai problemi della composizione musicale, oppure agli orari dei treni e ai risultati delle partite di calcio. È insomma un'identica energia che investe sia il futile che il grandioso, sia l'essenziale che il gratuito, senza che mai il soggetto autistico sospetti anche lontanamente queste distinzioni, e le gerarchie che le presuppongono. Collins non può evitare di pensare al futuro di suo figlio, e ai possibili oggetti di una facoltà di attenzione che già si rivela del tutto al di fuori della norma. E nello stesso tempo quel bambino è lì, davanti ai suoi occhi, e tutto quello che suo padre vorrebbe fargli sapere con certezza è l'amore che i suoi genitori provano per lui. Perché i cosiddetti «problemi cognitivi» non sono così astratti, non riguardano solo le procedure per orientarsi nel mondo, sfuggire i pericoli, manifestare bisogni pratici. Alla radice di tutto c'è la necessità di sentirsi amati, e di ricambiare questo amore, non importa come e non importa quanto.
Nei Colloqui con Kafka di Gustav Janouch c'è una pagina struggente, quando il giovane amico chiede a Kafka se dunque si sente tanto solo, solo come Kaspar Hauser. No, risponde lui, «molto più di Kaspar Hauser. Sono solo... come Franz Kafka».
Forse Morgan, se ragionasse come noi, potrebbe fare sua la battuta: se è vero che il suo destino, in fin dei conti, è quello di poter assomigliare solo a se stesso, di essere l'oggetto e insieme il termine di ogni paragone possibile. Non diversamente, a ben pensarci, da tutti noi, ma in modo più visibile, estremo, sorprendente - più umano, insomma.


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