Storie di maltrattamento e quel che serve per la dignità dei nostri figli
Ritornando a una recente vicenda di maltrattamenti nei confronti di bambini con disabilità e rispondendo a un intervento di Fabio Marletta, presidente dell’AIAS di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Benedetta Demartis, presidente dell’ANGSA, scrive tra l’altro: «Occorre una rivoluzione culturale, a partire proprio dagli ambulatori riabilitativi, dalle strutture diurne e residenziali, le cui porte devono essere aperte oltre che alle famiglie, o agli insegnanti, anche ad altri soggetti, per poter operare insieme in maniera più sinergica, per poter parlare effettivamente di inclusione»
Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo le seguenti riflessioni di Benedetta Demartis, presidente nazionale dell’ANGSA(Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici), in risposta all’intervento di Fabio Marletta, presidente dell’AIAS di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), intitolato Siamo noi i primi ad essere rimasti sgomenti, turbati e preoccupati, da noi ripreso nei giorni scorsi, in replica a una serie di dichiarazioni precedenti della stessa Demartis.
All’origine di tali interventi, lo ricordiamo, vi era stato l’episodio che ha avuto per protagonista un logopedista di Milazzo (Messina), sospeso per maltrattamenti nei confronti dei piccoli pazienti in cura all’Associazione AIAS.
Caro Presidente Marletta, nessuno voleva sminuire le qualità professionali dei terapisti impegnati all’AIAS. Sicuramente le “mele marce” – così com’è accaduto con il logopedista di Milazzo – sono presenti ovunque (a volte perfino tra i familiari) e mi scuso se il senso della mia condanna è stato frainteso, ma purtroppo, dopo gli episodi verificatisi in varie città italiane, abbiamo bisogno di una riflessione per un sostanziale cambio di passo.
Sulla videosorveglianza all’interno delle strutture purtroppo ci sono pareri discordanti anche tra i nostri stessi Soci, e quindi non posso parlare di questo a nome di tutta l’ANGSA. Non escludo però l’introduzione di questi impianti (io personalmente sarei a favore) e forse – come me che ho una figlia autistica grave – altri genitori nella mia condizione lo sono.
Trovo anche saggio l’uso che ne viene fatto ad esempio nella Fondazione Marino per l’Autismo, che usa la videosorveglianza soprattutto notturna, per monitorare il sonno o la veglia di persone che non sono in grado di chiamare se è in corso o è appena terminata una crisi epilettica, lasciandole sole per interminabili ore, forse caduti a terra e bagnati dalle proprie feci o urine fino al mattino [se ne legga sulle nostre pagine a questo link, N.d.R.]. Oppure per verificare se un sonno è disturbato da altri fattori come la sete, oppure per un reflusso esofageo, o altro ancora.
In numerosi centri – purtroppo più tra quelli privati che tra quelli pubblici – si filmano le sedute abilitative, proprio al fine di confrontarsi con tutta l’équipe o con i genitori o con gli insegnanti, per mostrare le giuste modalità di lavoro oppure le criticità dello stesso. Siamo quindi assolutamente in accordo con lei!
E saremo senz’altro sulla stessa linea con i professionisti seri per portare avanti, tutti insieme, queste buone prassi.
Occorre, infatti, una rivoluzione culturale, a partire proprio dagli ambulatori riabilitativi, dalle strutture diurne e residenziali, le cui porte devono essere aperte oltre che alle famiglie, o agli insegnanti, anche ad altri soggetti, per poter operare insieme in maniera più sinergica, per poter parlare effettivamente di inclusione.
Non ce ne facciamo nulla di tre quarti d’ora di qualunque trattamento fatto una o due volte alla settimana! Questo sapere và trasmesso agli altri! Deve poter essere generalizzato, per avere efficacia.
I ragazzi e gli adulti dei Centri Diurni o Residenziali devono uscire da quelle mura! Andare in città, in altri laboratori a fare cose che abbiano un senso! Che siano inclini alle loro capacità, ma soprattutto ai loro interessi. Chi lo dice che tutti vogliano fare oggetti con la creta, o col legno, o con la ceramica o in cucina o nell’orto…
Bisogna dividere in gruppetti omogenei queste persone e permettere loro di svolgere attività gradite e utili. Sarebbe molto utile anche per gli educatori e gli assistenti che li affiancano poter uscire e confrontarsi con altri colleghi. Ne gioverebbe la loro autostima e contemporaneamente sarebbe più difficile per loro rendersi protagonisti di abusi fisici o psicologici in posti aperti alla comunità.
Certo, servono risorse professionali in più. Le rette delle strutture devono essere riviste, per permettere una vita dignitosa ai nostri figli più fragili. Serve continuità nel progetto individuale e soprattutto professionalità per svolgerlo al meglio. Servono controlli e verifiche più puntuali.
E infine sugli abusi che spesso i nostri cari sono costretti a subire come soggetti fragili della società, occorre un’azione corale da parte di tutte le Associazioni, che in maniera definitiva devono chiedere e ottenere regolamenti e pene severe per chi commette crimini aberranti contro le persone con disabilità.
Io sono certa, dottor Marletta, che come Associazioni di professionisti e come familiari vogliamo tutti la stessa cosa!